Qualche sera fa sono andata al cinema a vedere Dunkirk: un grande film, a cui nei giorni successivi ho continuato a ripensare, finché non mi è venuta voglia di scriverci su.
Non sono un’appassionata di film di guerra, ma l’ultima fatica di Nolan è molto più di questo (e qui sta la sua forza).
Dunkirk è un film sul tempo: sul tempo che sta per finire e sul disperato tentativo di prolungarlo; sul tempo soggettivamente vissuto, che la mente umana è in grado di plasmare, piegare, dilatare, ripetere, forgiare.
Come ama spesso fare, Nolan spezza la linearità cronologica, questa volta azzeccando un mix perfetto e sinfonico, libero da trappole cervellotiche, in una struttura che intreccia tre diverse linee temporali (una settimana, un giorno, un’ora) e spaziali (terra, mare, aria): in alcune occasioni lo stesso evento ci viene mostrato da punti di vista diversi (perché è così che viene vissuto), in un cortocircuito straordinario, capace di restituire la complessità del nostro modo di percepire il reale.
I personaggi sono bloccati in una sorta di eterno ritorno, su una spiaggia dai colori lividi per certi versi simile a un pianeta alieno, una specie di limbo su cui si viene continuamente risospinti e da cui sembra impossibile fuggire, come in un incubo, di quelli in cui vuoi gridare ma la voce non esce, cerchi di correre e non ti muovi, cadi nel vuoto, anneghi (del resto, la dimensione onirica – vedi Inception – è molto presente in Nolan).
Sappiamo poco o nulla di chi siano i protagonisti, ma siamo lì con loro: Dunkirk è una straordinaria esperienza sensoriale, in grado di scatenare reazioni fisiche nello spettatore (io a un certo punto avevo la tachicardia: dopo i titoli di coda mi sono alzata dalla poltroncina sudata fradicia, nonostante l’aria condizionata).
Lavorare sul tempo e renderci partecipi del destino dei personaggi: ecco i due elementi cardine su cui lavora la suspense. E in materia, Nolan sa il fatto suo: il risultato è una tensione altissima (ai limiti dell’ansia) che non conosce momenti di calo e che non ci molla mai per tutta la durata del film. Merito anche della colonna sonora di Hans Zimmer, che ha alla base la registrazione del ticchettio di un orologio (tic-tac, il tempo che scorre, inesorabile, anche dentro la musica) e che gioca su un’illusione sonora chiamata “shepard tone” per darci la sensazione di un crescendo senza fine.
Tutto quello che i personaggi vogliono è sopravvivere, aggiungere tempo, respirare ancora.
Magnifica la scelta di non mostrare mai i soldati tedeschi.
Il nemico non ha volto perché è la morte stessa, che arriva dal cielo, dalla terra e dal mare – sotto forma di bombe, proiettili, siluri – ma che può giungere anche a causa di un banale incidente (il ragazzo che cade e batte la testa sulla barca dei civili), sempre ignota, spietata, assurda, inspiegabile.
Il film si carica così di una valenza simbolica che va ben oltre l’episodio storico narrato.
Per me, Dunkirk sta tutto nella scena in cui il ragazzino seduto sulla spiaggia – stravolto, terrorizzato – guarda un soldato buttarsi in mare e sfidare le onde da solo, nuotando controcorrente. Un’immagine-totem, bellissima e struggente, che forse racchiude in sé l’essenza stessa della condizione umana.
Altra splendida mossa, l’uso del dialogo ridotto al minimo: i personaggi non parlano quasi mai in questo film in cui gli uomini sono soprattutto occhi, mani, sangue, fiato.
Se anche levassimo le battute presenti, ciò non toglierebbe nulla all’impatto emotivo della storia e alla nostra capacità di seguirla.
Pura azione, puro cinema.
Delle storie che mi piacciono tendo a osservare i meccanismi. Cerco di capire cosa possono insegnarmi.
Credo che in questo caso Nolan ci regali delle importanti lezioni di storytelling:
– giocare con il tempo e con le strutture narrative
– tenere incollati alla narrazione con un uso sapiente della suspense e la creazione di un forte legame emotivo, catapultando lo spettatore dentro alla storia, rendendolo totalmente partecipe del destino dei personaggi
– fare un uso ponderato della parola: fidarsi dei silenzi e delle azioni dei personaggi, lasciare che a volte essi parlino per loro
– rendere universale il particolare
Dunkirk è un grande film, perché afferra lo spettatore e non lo molla un secondo, facendogli vivere le stesse sensazioni provate dai suoi personaggi.
Lo prende di pancia, gli entra in testa, gli fa battere il cuore (veloce, oh sì): è quello che dovrebbe fare ogni grande storia.