Capita, quando si fa notare a qualcuno che quello che ha scritto non funziona, che quel qualcuno si giustifichi dicendo “Ma nella realtà è andata proprio così” o “Guarda che mi è successo davvero”.
C’è un equivoco alla base di queste affermazioni che va assolutamente chiarito: il fatto che gli eventi narrati si siano verificati davvero così come vengono raccontati non può essere usato come alibi, non è una giustificazione valida.
I fatti realmente accaduti non possono essere riportati tali e quali sulla pagina: non è così che funziona la narrativa.
La realtà è spesso caotica, magmatica, sfilacciata, senza senso e tremendamente noiosa: se vogliamo che il lettore ci segua e si affidi a noi, la nostra narrazione non può permettersi di esserlo.
Gli eventi di una storia devono avere una loro coerenza: perché siano credibili, vanno costruiti, preparati, sostenuti da rapporti di causa-effetto che siano verosimili per il lettore. E questo vale anche nel caso in cui la storia che stiamo raccontando sia ispirata a fatti realmente accaduti.
Scrivendo, è necessario costruire quei nessi di senso di cui la vita è per lo più sprovvista: la realtà può infischiarsene, la finzione no.
Si scrive, in fondo, anche per mettere ordine nel caos.
Solo in questo modo la finzione potrà restituire un’impressione di realtà ed essere, per chi legge, più vera della stanza in cui si trova.
Quando si scrive narrativa, occorre mentire per dire la verità.
Lo dice benissimo Domenico Starnone nel suo Fare scene: “Sono fatti veri che hanno urgente bisogno di diventare finti per diffondere al meglio la loro verità”.
Mi sono imbattuta nello stesso concetto qualche tempo fa, mentre ero ad ascoltare Tommaso Pincio che parlava del suo ultimo romanzo, Panorama. Pincio raccontava di come alcuni episodi del suo libro fossero basati su eventi realmente accaduti e a un tratto ha detto una cosa che mi ha molto colpita: che scrivere è un po’ come annegare piccole isole di realtà in un mare di finzione.
Ecco, scrivere narrativa è fare questo mix inestricabile di vita vissuta e inventata da cui, se siamo bravi e fortunati, potrà scaturire una qualche verità per il lettore.
Per spiegare meglio cosa intendo, vi faccio un esempio illustre.
In una lettera alla madre del 1933, John Fante racconta una sua esperienza:
Due settimane fa, sono andato a nuotare a Santa Monica alle due di mattina. Mi sono divertito da pazzi. Sono andato con un’amica. Abbiamo fatto il bagno nudi e abbiamo corso per la spiaggia urlando e gridando come due selvaggi. Mi meraviglio di come non ci abbiano arrestato per oltraggio alla morale pubblica. Ma non abbiamo fatto nulla di riprovevole e la nostra condotta non è stata indecente, tranne forse che abbiamo urlato troppo.
Fante rielabora questo episodio in una celebre scena di Chiedi alla polvere.
Guardate cosa diventa questo piccolo evento nelle sue mani:
Nuotai finché mi sentii stanco, poi uscii dall’acqua. Avevo gli occhi che mi bruciavano per il sale. Mi buttai sulla sabbia, esausto. Quando mi tornarono le forze, mi tirai su a sedere con una gran voglia di fumare una sigaretta. Camilla era sparita. Andai alla macchina pensando di trovarla lì, ma non c’era. Mi precipitai verso riva e mi misi a scrutare tra i vortici schiumosi. La chiamai.
Allora la sentii gridare. La sua voce veniva da lontano, oltre il punto in cui si formavano i cavalloni, dove i banchi di nebbia nascondevano l’acqua appena mossa. Doveva essere a un centinaio di metri dalla riva. – Aiuto! – gridò di nuovo. Entrai in acqua, affrontando le onde con la spalla, e cominciai a nuotare. Il fragore era tale che non riuscivo più a sentirla. – Sto arrivando! – urlai a più riprese, finché dovetti smettere per non sprecare le forze. Avevo imparato a superare i cavalloni tuffandomi sotto la cresta, ma le ondate più piccole mi confondevano, mi colpivano in faccia, facendomi bere. Finalmente mi ritrovai oltre la barriera dei frangenti, dove l’acqua si rompeva in piccole onde che mi lambivano la bocca. Aveva smesso di gridare. Mi tenni a galla senza nuotare, in attesa di un nuovo grido, ma non udii nulla. Mi misi a urlare. La mia voce era debole, come se provenisse dalle profondità marine.
Improvvisamente mi sentii esausto. Stentavo a stare a galla e cominciai a bere. Mi misi a pregare, gemendo e lottando con l’acqua, anche se sapevo che non avrei dovuto farlo. Qua fuori, il mare era calmo; dalla spiaggia, invece, giungeva il rombo dei cavalloni che si rompevano. Chiamai, attesi, chiamai di nuovo. Non udii nulla, se non lo sciacquio prodotto dalle mie braccia e il rumore della maretta. Tutt’a un tratto le dita del mio piede destro si bloccarono. Lancia un calcio e sentii una fitta di dolore saettarmi fin nella coscia. Volevo vivere. Dio, non prendermi proprio adesso! Mi misi a nuotare alla cieca verso riva.
Poi mi ritrovai tra i cavalloni e fui di nuovo assordato dal fragore. Avevo la sensazione che fosse ormai troppo tardi. Non riuscivo più a nuotare, le braccia mi pesavano per la stanchezza e la gamba destra mi doleva terribilmente. Dovevo riuscire a tutti i costi a tenere la testa fuori dall’acqua, ma mi sentivo risucchiare sotto dalle onde che si ritraevano. E così questa era la fine, la fine di Camilla e di Arturo Bandini; eppure, anche in quel momento, era come se stessi scrivendo, come se stessi registrando tutto sulla carta. Davanti agli occhi avevo il foglio dattiloscritto, mentre fluttuavo, sbattuto dalle onde, senza riuscire a raggiungere la costa, sicuro che non ne sarei uscito vivo. Improvvisamente i miei piedi toccarono il fondo, ma ero tropo debole per approfittarne e troppo occupato a cercare di schiarirmi le idee per ricomporre mentalmente la scena, evitando gli eccessi descrittivi. L’ondata successiva mi travolse, gettandomi dove l’acqua era alta solo trenta centimetri, e io mi trascinai a gattoni fuori da quei trenta centimetri, chiedendomi se sarei riuscito a immortalare l’episodio in una poesia. Pensai a Camilla, là in mezzo a quell’inferno, e mi misi a piangere, notando con stupore che le mie lacrime erano più salate del mare. Ma non potevo starmene lì inerte, dovevo cercare aiuto, così mi alzai e mi diressi barcollando verso la macchina. Mi battevano i denti dal freddo.
Mi voltai a guardare l’oceano e finalmente la scorsi, a una ventina di metri di distanza, che avanzava verso riva con l’acqua fino alla vita. Rideva a più non posso, felice di quello che doveva sembrarle uno splendido scherzo ma, quando la vidi tuffarsi sotto un cavallone con l’abilità e la grazia di una foca, non mi divertii per niente. Mi diressi verso di lei, sentendomi tornare le forze a ogni passo, e quando la raggiunsi, la sollevai di peso, alzandola sopra le spalle, senza badare alle sue grida, incurante delle sue unghie che mi graffiavano la testa e mi strappavano i capelli. La sollevai finché non ebbi le braccia tese e poi la scaraventai in una pozza d’acqua non più fonda di mezzo metro. Atterrò con un tonfo che le mozzò il respiro. Mi avvicinai di nuovo, le afferrai i capelli con le mani e le strofinai la faccia nella sabbia bagnata. Poi la lascia lì, a strisciare sulle mani e sui piedi, e tornai alla macchina. Sapevo che c’erano delle coperte sotto il sedile posteriore. Le tirai fuori, mi ci avvolsi e mi sdraiai sulla sabbia calda.
Poco dopo arrivò, arrancando nella sabbia. Rimase in piedi davanti a me, lucente e gocciolante, girando orgogliosa su se stessa per mostrarmi la sua nudità.
– Ti piaccio ancora?
Le lanciai un’occhiata. Non riuscivo a parlare, e mi limitai ad annuire, sogghignando. Mise i piedi sulla coperta e mi disse di spostarmi. Le feci posto e lei si infilò sotto. Era liscia e fresca. Mi disse di abbracciarla e io la abbracciai, e lei mi baciò con le labbra umide e fredde. Rimanemmo così a lungo e io ero preoccupato, timoroso, senza desiderio. Una specie di fiore grigio si schiuse tra di noi, un pensiero che, quando prese forma, parlò dell’abisso che ci separava. Ero confuso, ma la sentivo in attesa. Le appoggiai le mani sul ventre e sulle gambe, cercai il mio desiderio, frugai scioccamente in cerca della mia passione, mi sforzai invano di trovarla mentre lei attendeva. Mi rotolai, strappandomi i capelli e implorando che si manifestasse, ma niente, non c’era niente. In testa non avevo altro che la lettera di Hackmuth e l’abbozzo di cose non scritte, ma dentro di me non c’era passione, solo paura, vergogna e umiliazione. Allora cominciai ad accusarmi e a maledirmi, e desiderai di alzarmi e tornarmene in acqua. Lei sentì il mio distacco. Balzò a sedere sogghignando e prese ad asciugarsi i capelli nella coperta.
– Credevo di piacerti, – mi disse.
Ecco come un evento tutto sommato semplice come fare il bagno di notte nell’oceano, a cui si dedicano solo poche righe in una lettera, può diventare una scena indimenticabile.
L’autore parte dalla propria esperienza, certo, ma la manipola e la plasma fino a trasformarla in ciò che Arturo Bandini, non più John Fante, ha vissuto.
Dentro al testo l’autore riversa probabilmente alcune delle sensazioni provate quella notte, ci mette le sue ossessioni e quello che lo rende ciò che è, vale a dire uno scrittore (magnifica la parte in cui, mentre rischia di annegare, Arturo si scopre a pensare a come potrebbe descrivere sulla carta quel momento!), ma il risultato finale è qualcosa di ben diverso, più grande e più universale, dell’aneddoto da cui ha preso le mosse. Bigger than life, direbbero gli americani.
È così che la finzione diventa più vera della realtà.
Bellissimo Silvia!
Grazie, Stefania 🙂