Semmai avessi voluto la prova che i libri ci vengono a cercare, be’, l’ho avuta.
Ecco come è andata.
Mi aggiro curiosa in libreria in un bel pomeriggio di sole: vado spedita verso la parete con i volumi usati, dove si trovano sempre interessanti occasioni.
Tra i moltissimi libri, uno colpisce la mia attenzione.
Per la copertina? No, niente di speciale.
Per il titolo? Non direi, non ha nulla di straordinario.
Per l’autore? Lo conosco di fama, ma non ho mai letto niente di suo.
Per la trama? “La storia di un incontro tra un uomo ormai quarantenne, e stanco, rassegnato, con una novizia di vent’anni, Serena”. Mah, plot già visto, non mi incuriosisce particolarmente.
E quindi? Perché mi sento così attratta da questo libro? Non ve lo so spiegare il motivo, se non con il destino: io e La suora giovane di Giovanni Arpino dovevamo incontrarci, perché questo romanzo ha qualcosa da dirmi.
Guardo – come faccio spesso – la prima pagina, leggo l’incipit e rimango folgorata:
Non ho coraggio.
Se riesco a stare chiuso in casa è perché non so più dove sbattere la testa. Ho passeggiato, grazie a questo smorto sole di dicembre, sono stato al cinema, ho letto il giornale. Non è ancora sera ed eccomi di nuovo qui, incerto se telefonare o no a qualcuno, se sdraiarmi sul letto o aprire la radio.
Appena smetto di fare, sprofondo.
Ah, quello “sprofondo”, che sembra trascinare giù con sé tutto il paragrafo…
Che meraviglia. Mi basta leggere queste poche righe per decidere che il romanzo tornerà a casa con me. E la lettura non fa che confermare la mia prima impressione.
La suora giovane è un piccolo grande libro: piccolo nelle dimensioni (circa 150 pagine) e nella vicenda narrata (la storia intima di un incontro, raccontata dal protagonista sotto forma di diario), ma grande nella scrittura e potente nel riverbero che ha sul lettore.
Un gioiello.
Ho molto amato questo romanzo, per tante ragioni, tra cui questa: sfogliare le sue pagine mi ricorda la magnifica democraticità della letteratura, che nella sua portentosa varietà sa affiancare opere gigantesche, monumentali – dalle architetture narrative complesse e ambiziose – a piccole, esili storie, i cui personaggi si contano sulle dita di una mano – indimenticabili nella loro semplicità – , senza pregiudizi di valore, senza classifiche, senza esclusioni. Quando un libro vale, vale. Punto.
L’ho amato perché dentro ci ho trovato una Torino notturna e fluviale, pervasa dalla nebbia e da un freddo pungente, descritta in maniera asciutta e perfetta, senza inutili fronzoli, come le si confà:
Il corso solitamente è deserto, con luci fioche che oscillano al vento invernale, non c’è che un caffè, lontano, e il largo davanti alla chiesa della Gran Madre che luccica di intrichi di rotaie. Ma quando sono su quella pedana mi pare che milioni d’occhi spiino dalla siepe lungo il fiume, dalle cupole secche degli alberi, mi pare che tutto il mondo trattenga il fiato per sorprendermi e balzarmi addosso.
Perché è un libro sull’attesa, in cui le cose che non accadono hanno lo stesso peso – o forse un peso maggiore? – di quelle che accadono:
Abbiamo aspettato la seconda vettura nell’abituale, crudele silenzio, oscuramente in agguato l’uno dell’altro.
E per frasi come queste, capaci di spezzarmi il cuore:
“Non basta essere nati” disse poi in un soffio: “Bisogna anche fare qualcosa”.
Che lontananza, sempre, di tutto, da quando sono diverso, da quando non mi riconosco […]
Ma mi accorgo della contraddizione di voler trovare ragioni all’irrazionale, di voler determinare le cause di una folgorazione.
Vi è mai capitato un colpo di fulmine?
Difficile spiegarlo.
Leggete La suora giovane e capirete.