Scherzetto, il nuovo romanzo di Domenico Starnone, è una storia di fantasmi.
A modo suo, ovviamente. Non aspettatevi orrorifiche apparizioni allo scoccare della mezzanotte o sferragliare di catene nel buio.
La vicenda narrata è quella di Daniele Mallarico, artista alle prese con l’illustrazione del racconto The Jolly Corner di Henry James (uno che di fantasmi se ne intendeva…), costretto, suo malgrado, a vestire per qualche giorno i panni di nonno amorevole per accudire il piccolo Mario, suo nipote, nella casa di Napoli dove in passato ha trascorso l’infanzia e dove ora vive la figlia.
Bene, e che c’entrano i fantasmi? – direte voi.
C’entrano, eccome, perché il testo rivela un incessante intrecciarsi e sovrapporsi di presenze impalpabili che abitano il tessuto della storia, infestandola come spettri.
Fantasmi sono le ombre dei precedenti abitanti della casa, i parenti defunti, che l’anziano protagonista sapeva scorgere quand’era ragazzo:
Ancora a ridosso dell’adolescenza vedevo – se mi muovevo al buio o in penombra – parenti di mio padre e di mia madre che avevo conosciuto o avevo visto solo in fotografia. Erano morti durante la guerra, di questo ero sicuro, eppure se ne stavano in piedi negli angoli della casa, nascosti dietro un porta, dietro un armadio. Se li scoprivo, mi facevano cenno di star zitto, ricorrevano all’occhiolino, ridevano senza suono.
Un fantasma è ciò che sente diventerà presto lui stesso:
[…] gran parte della vita l’ho vissuta e adesso io stesso mi avvicino al momento di morire, toccherà a Mario scoprirmi dietro un’anta o negli angoli bui di questa casa. Quante parvenze era capace di mandare in tondo il cervello col suo circuito di emozioni. Il bambino non temeva il buio ma forse, dopo quella nostra convivenza, avrebbe temuto le mie apparizioni.
Fantasmi sono, soprattutto, i se stessi possibili mai realizzati: tutte quelle persone che Daniele sarebbe potuto diventare e che si è invece lasciato alle spalle, una volta sfuggito a Napoli, alla famiglia e agli affetti, per intraprendere la carriera d’artista.
Qui a Napoli molti me sono stati in boccio fin dalla prima adolescenza e smaniavano per imporsi […] Ma sono state possibilità che hanno avuto vita breve, le ho scartate. O forse ho solo creduto di farlo. Volevo provare a diventare una cosa sola e basta, un artista di rilevanza planetaria, uno dei pochi che saranno ricordati fino a che il sole non si spegne, o forse anche in seguito, su pianeti abitabili, con soli benevoli. Non ci sono riuscito e ora le vecchie variazioni – cloni difettosi, fabbricati dalla coscienza scontenta – si ergono tutte con una forza inattesa, come vermi – vecchia similitudine rifatta da James – quando sollevi una pietra.
Fantasmatici appaiono, per certi versi, gli stessi protagonisti del romanzo.
Daniele, per sempre fissato sulla carta dalla precoce mano del nipote:
Sul foglio del bambino c’era la dimostrazione di una straordinaria capacità mimetica, di una naturale armonia compositiva, di un fantasioso senso del colore. Aveva disegnato me, riconoscibilissimo, me adesso, me oggi. E tuttavia sprigionavo orrore, ero davvero il mio fantasma.
E Mario, nella sfuocata proiezione di quel che sarà in futuro:
Mario era solo il piccolo ritaglio di una sostanza viva le cui potenzialità – come accade a chiunque – se ne stavano compresse in attesa di sviluppo. Nel giro di un paio di decenni, per comodità, avrebbe messo la sordina a gran parte di sé – un’area vasta da dismettere piano piano – e sarebbe corso dietro a un qualche abbaglio da chiamare in seguito il mio destino.
L’arte stessa, in fondo, – la scrittura, in particolare – cos’è se non una continua evocazione di fantasmi?
Scherzetto ne evoca molti, primo fra tutti quello del racconto di Henry James, The Jolly Corner. Non lo conoscevo, sono andata a leggermelo. Dentro ci ho trovato una sintassi ipnotica e mirabile, una tensione perturbante e crescente, e una tematica, quella delle vite che non abbiamo vissuto, che Starnone esplicitamente riprende, fa propria, dilata ed esplora nel suo romanzo.
Sentite quel che Henry James ci dice di Spencer Brydon, il suo protagonista, intento a riflettere su ciò che sarebbe potuto diventare (un ricco costruttore) se, ancora giovane, non se ne fosse andato da New York:
Quella sensazione inspiegabile era cominciata dopo le prime due settimane, esplodendo nel modo più strano e improvviso: lo aveva colto come se, girando l’angolo di una stanza buia in una casa vuota, si fosse imbattuto in un qualche strano personaggio, un ospite inatteso […] Quella pittoresca analogia, per quanto impressionante, non riusciva a scrollarsela di dosso; anzi, la rendeva anche più spaventosa lavorando sui dettagli: apriva una porta dietro la quale era sicuro che non avrebbe trovato niente, che conduceva a una stanza vuota e sbarrata, ma l’impeto iniziale era frenato da un’indistinta presenza in piedi davanti a lui, da qualcosa, piantato al centro della stanza, che lo fissava nascosto nell’ombra.
E ancora:
Quel calice conteneva il suo altro mondo fatato, e il sussurro incredibilmente dolce che produceva era dunque il singhiozzo, il lamento – quasi impercettibile alle sue orecchie – di tutte le antiche possibilità, dimenticate e scartate. Rispondendo all’appello che rivolgevano alla sua muta presenza, le evocava nella forma di esistenze fantasma, come se potessero ancora essere vissute.
Evocare esistenze fantasma.
È proprio questo che fa la scrittura, ed è ciò che fa, magistralmente, il romanzo di Starnone, in una stratificazione di senso sempre più profonda, che si apre come una voragine tra le pieghe della superficie, con un nitore spietato e un ritmo teso, che ci tengono attaccati al libro fino all’ultima pagina.
Citazione cult:
I fantasmi fanno il nido nel futuro.