Ho letto Purity in pochi giorni, trascinata dalla storia, dal suo ritmo incalzante e dalla strepitosa scrittura di Jonathan Franzen (magnificamente tradotto per Einaudi da Silvia Pareschi).
Purity è uno di quei libri che, quando parte, è come una locomotiva lanciata a tutta velocità: ti trascina con sé nella sua corsa e non ce n’è più per nessuno (il sonno, le faccende di casa, le uscite possono aspettare).
Mentre leggi, pensi “Madonna, quanto è bravo” e vorresti soffermarti per capire come fa, analizzare i capitoli, sviscerarne la costruzione… ma non ce la fai, la voglia di continuare a leggere e a stupirti è più forte, e allora rimandi a una seconda lettura l’esigenza di comprendere.
Per me, quando un libro riesce a fare questo, è un grande libro, e il suo autore un grande autore.
Purity è un libro complesso e sfaccettato, capace, come spesso i grandi romanzi americani sanno fare, di incrociare la Storia del mondo e della società con la storia dei singoli individui, grazie a una trama costruita alla perfezione, che si muove nello spazio e nel tempo svelandosi a poco a poco agli occhi del lettore, con personaggi a tutto tondo, dialoghi super e un uso strepitoso della focalizzazione.
Le sei parti in cui il romanzo è diviso ci offrono ben quattro punti di vista diversi: i cambi di prospettiva fanno avanzare la storia, rivelandone man mano nuove implicazioni e risvolti sconosciuti, mentre Franzen scivola dentro e fuori dalla mente dei suoi personaggi con una naturalezza che lascia a bocca aperta.
Per molti versi Purity richiama i grandi capolavori della letteratura: al suo interno troviamo una buona dose di Dickens, a partire dal soprannome della protagonista, Pip, lo stesso del personaggio principale di Grandi speranze; Shakespeare, con le citazioni dall’Amleto e il padre-fantasma di Andreas Wolf; Dostoevskij, per la profondità di analisi psicologica dei personaggi e la presenza di un delitto senza castigo; Goethe, con la citazione in esergo tratta dal Faust (“…Die stets das Böse will und stets das Gute schafft”), ripresa dalla battuta di Mefistofele, che, alla domanda “Chi sei tu, dunque?”, risponde “Sono parte di quella forza che eternamente vuole il Male e eternamente opera per il Bene” (la stessa citazione, per esteso, compare in apertura a Il Maestro e Margherita di Bulgakov).
E il problema del Male (virtuale, reale, storico, individuale, collettivo…) è molto presente nel romanzo di Franzen: i suoi personaggi inseguono un ideale di purezza irraggiungibile in un mondo in cui tutti anelano ad una qualche forma di potere (“I segreti sono potere. Il denaro è potere. L’essere necessari a qualcuno è potere”).
Tutti i protagonisti (Andreas, Tom, Leila, Anabel, la stessa Purity) hanno dei segreti e sono necessari a qualcuno: per loro la purezza è di volta in volta un miraggio, una finzione, una condanna, un’ossessione, un’aspirazione destinata al fallimento. Ma proprio in questa ricerca votata allo smacco sta la loro identità, fragile e contraddittoria, la loro complessità e quindi, in fin dei conti, la loro umanità.
Curiosità:
Sembra che da Purity sarà tratta una serie tv in venti episodi scritta dallo stesso Franzen e da Todd Field, interpretata da Daniel Craig.
Cosa non dimenticherete mai:
Il personaggio di Andreas Wolf, magnetico, complesso e inquietante: non vi lascerà nemmeno dopo aver voltato l’ultima pagina.
E i dialoghi, che sanno restituire la freschezza, il ritmo e la spontaneità del parlato, ma con quella dose di arguzia e profondità che solo la letteratura può garantire. Un esempio:
– Questa è una delle nostre stagiste, Pip Tyler, – disse Leila.
– Pip, – tuonò Charles, squadrandola dall’alto in basso con ammirazione lasciva. – Mi piace il tuo nome. Ho grandi speranze per te. Ieeee! Chissà quanti te lo dicono.
– Di rado in modo così elegante, – rispose Pip.
– Pip ha bisogno di un posto dove passare la notte, – disse Leila. – Spero che non ti dispiaccia.
– Tu non sei mia moglie? Questa non è la nostra casa? – Charles scoppiò in una risata poco gradevole.
– Comunque, – disse Leila, avanzando adagio verso l’ingresso.
– Sei una lettrice, Pip? Leggi libri? La vista di tutti questi libri in una stanza ti spaventa?
– Mi piacciono i libri, – rispose Pip.
– Bene, bene. E sei una grande ammiratrice di Jonathan Savoir Faire? Molti miei studenti lo sono.
– Si riferisce al libro sul benessere animale?
– Proprio a quello. Scrive anche romanzi, mi dicono.
– Ho letto il libro sugli animali.
– Tutti questi Jonathan. Un’invasione di Jonathan. Se leggessi solo la “New York Times Book Review” penseresti che è il nome più comune d’America. Sinonimo di talento, di grandezza. Di ambizione e vitalità -.
Passaggio cult:
Difficile scegliere… Ma eccone uno senza spoiler:
Ma l’odore era stato anche uno splendore. Non fuori dall’aeroporto di Santa Cruz de la Sierra, dove le zaffate di merda di vacca proveniente dai pascoli vicini si mescolavano all’odorabile inefficienza di motori proibiti in California molto prima che Pip nascesse; non sulla Land Cruiser guidata con mano sicura da un boliviano taciturno, Pedro, fra i particolati del diesel sulla circonvallazione della città; non lungo la strada di Cochabamba, dove ogni mezzo chilometro l’ennesimo dosso artificiale brutalmente efficace le permetteva di annusare frutta marcia e roba fritta e di venire avvicinata dai venditori di arance e roba fritta che avevano installato i dossi; non nell’afa della strada polverosa dove Pedro svoltò dopo che Pip ebbe contato quarantasei dossi (rompemuelles, li chiamava Pedro, la prima parola nuova di Pip in spagnolo); non quando raggiunsero un crinale e scesero lungo un viottolo più ripido di qualunque strada di San Francisco, sotto il sole di mezzogiorno che faceva evaporare le sostanze volatili dal rivestimento di plastica dei sedili e la benzina dalla tanica di riserva nel retro della Land Cruiser; ma quando la strada, dopo essersi immersa nella foresta asciutta e in un bosco più fresco in parte abbattuto per piantarvi il caffè, aveva finalmente raggiunto il fondovalle e costeggiato un ruscello fino a entrare in una valletta di una bellezza al di là di ogni immaginazione, allora aveva cominciato a essere uno splendore.