Tempo fa, ripensando ai miei anni universitari, mi è tornato in mente un episodio che mi ha fatto riflettere su un aspetto cruciale dello scrivere.
Ero a lezione di Letteratura Italiana Contemporanea (la materia in cui poi mi sarei laureata): l’argomento del corso era La Storia di Elsa Morante.
A un certo punto la professoressa ci chiese: “Se voi doveste scegliere, come definireste la scrittura? Una forma di espressione o di comunicazione?”.
Silenzio generale.
Non ebbi il coraggio di dirlo ad alta voce, ma la parola “Espressione!” sfolgorò nella mia mente.
Scrivere è espressione di sé, dei propri pensieri e sentimenti… Si scrive appunto per esprimere quello che non si riesce a dire… – iniziai a pensare tra me e me con entusiasmo. Quindi immaginate il mio sconcerto quando la prof affermò perentoria: “La scrittura è prima di tutto comunicazione”.
Ma come??? No no no! – m’indignai quasi, lì per lì.
Oggi posso riconoscere in tutta tranquillità che aveva ragione lei, ovviamente, e che io avevo torto.
Ci sono voluti tempo, vita, esperienza, letture, sbagli, correzioni, fogli strappati e riscritti mille volte per capirlo, ma è proprio così, ora mi è chiaro: scrivere significa, soprattutto e prima di ogni altra cosa, comunicare.
È importante che qualcuno ce lo dica, perché, anche se ancora non riusciamo a comprenderlo, quel concetto rimane nella nostra mente, in attesa, fino a che non siamo pronti a farlo nostro.
Si scrive per essere letti, cioè per dire qualcosa a qualcuno.
Può sembrare banale, ma da questa affermazione derivano a cascata parecchie conseguenze che banali non sono affatto.
Se scrivere è comunicare, è essenziale che ci facciamo capire dal nostro lettore. Questo implica un grande sforzo: quello di rendere in maniera chiara sulla pagina la materia spesso informe e confusa che ci vaga per la testa. Quante volte ci è capitato di avere un’idea e di provare a spiegarla a qualcuno, per poi sentirci rispondere: “Non ho capito” o “Questo passaggio non mi quadra” o ancora “Scusa, ma non ti seguo, fai un passo indietro e ricomincia da capo”. Ricordate la frustrazione che avete provato?
Considerare la scrittura come un atto di comunicazione sposta il centro dell’attenzione dall’Io all’Altro.
Scrivendo, dobbiamo fare in modo che il lettore ci segua, che le cose filino, che le parole scorrano fluide, con apparente naturalezza… ma tutto questo si ottiene solo con il lavoro, la riscrittura, i tentativi, le revisioni.
È anche uno sforzo di umiltà.
Quando scriviamo narrativa, non lo facciamo per sbattere il nostro ego sulla pagina, per sfogarci o esprimere i nostri sentimenti repressi. Certo, quando mettiamo le parole sul foglio inevitabilmente succede anche tutto questo, ma è un effetto, non lo scopo. Il fine è raccontare una storia a qualcuno.
Quando si è molto giovani o alle prime armi, è normale cadere nell’errore che feci io sui banchi dell’università: l’importante è che poi arrivi la consapevolezza dell’equivoco. Altrimenti il rischio è quello di rimanere prigionieri di una scrittura diaristica, autoreferenziale e dilettantesca, che molto difficilmente potrà interessare a qualcuno al di fuori di noi e della nostra cerchia di affetti più cari.
Giuseppe Pontiggia rifletteva su come in molti siano vittime di un’errata convinzione: che scrivere sia trascrivere quello che si pensa. Ci ricorda che scrivere, invece, è inventare, dal latino “invenio”, cioè scoprire/trovare. Scrivendo, si scopre quello che non si sapeva di conoscere. Il testo, quando è riuscito, costituisce per lo scrittore stesso una fonte di sorpresa.
Scrivere non dovrebbe essere mai, in nessun caso, il mero resoconto dei nostri pensieri e delle nostre emozioni. L’obiettivo immediato non è esprimere se stessi, ma creare qualcosa che viva al di fuori di noi e che assuma un qualche senso per gli altri.
Non ricordo più chi disse che non bisogna scrivere con le lacrime agli occhi, ma con il ricordo di quelle lacrime. Ecco.
Solo con gli occhi asciutti possiamo trovare il distacco necessario per prendere l’emozione che abbiamo vissuto e trasformarla in qualcos’altro, che possa essere compreso, condiviso e sentito da chi ci legge.
In fondo è questo che fanno i grandi libri: sembrano parlare a ciascuno di noi, personalmente; ci narrano storie e ci mostrano personaggi in cui, nonostante le distanze siderali che spesso ci separano dai loro autori, ci riconosciamo.
Sanno comunicare con noi. E questa è la loro magia.
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